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Vecchi pregiudizi e nuovi cittadini

Quando non sa più cosa dire, quando le presentazioni dei rendering non bastano più, quando l’imbarazzo pervade anche i fan più scatenati, la sindaca di Monfalcone ha la sua arma finale: se la prende con gli immigrati. Lancia qualche strale dalle colonne del giornale, qualche incommentabile post su Facebook, insomma fa come quei giocatori che non sapendo più cosa fare lanciano la palla in tribuna.
Già, l’immigrazione, l’alfa e l’omega della campagna elettorale permanente della sindaca, il nocciolo di tutta la sua chiacchiera politica, il fallimento totale di quasi sei anni di malgoverno.
A Monfalcone lo sanno anche i sassi che la sua grande promessa elettorale, la super bufala che eccitava i suoi sostenitori, era “basta con l’immigrazione”.
Bene, a fine mandato gli immigrati in città sono molti più di quanti fossero quando lei si è insediata in Municipio, il trend di crescita è persino aumentato negli ultimi anni e il comune non fa nulla di serio per gestire questa situazione.
Facciamo un passo indietro: negli anni passati la destra sull’immigrazione ha costruito una narrazione falsa e tossica. In soldoni, secondo loro, Monfalcone era una città bellissima finché la sinistra ha portato qui gli immigrati distruggendola. Più o meno così. Come si dice? Una fake news per ingenui.
Facciamo un po’ di storia. Monfalcone fino alla fondazione da parte dei Cosulich dei cantieri navali era un borgo di pescatori, con poco più di duemila abitanti. È con la nascita dei cantieri a inizio ‘900 e il realizzarsi un tessuto industriale, che la città comincia a crescere. Arriva gente inizialmente dall’Istria e dalla bassa friulana poi, con la fine della I Guerra mondiale e il passaggio all’Italia, l’immigrazione arriva dal mezzogiorno, inizialmente grazie ai soldati pugliesi che si fermarono a lavorare nelle fabbriche locali (vi siete mai chiesti come mai Monfalcone è gemellata con Gallipoli?). Dopo la seconda guerra mondiale e il boom economico degli anni sessanta ecco una nuova ondata migratoria dall’Italia meridionale, che si ferma con la crisi della cantieristica, fino agli anni novanta. È con la riconversione di Fincantieri alle grandi navi da crociera che l’arrivo di lavoratori riprende: sempre dal sud Italia, ma anche dai Balcani e, infine, dal Bangladesh. Un flusso continuo fino a oggi che ha fatto sì che a Monfalcone, contrariamente al resto della Regione, non ci fosse un calo demografico. Basti pensare che il taglio, per mancanza di nascite, dei punti nascita negli ospedali della Regione ha colpito Gorizia ma non la nostra città proprio in ragione della presenza degli immigrati.

Quindi vanno subito chiarite due cose: l’immigrazione a Monfalcone c’è sempre stata ed è motivata dalla presenza della grande fabbrica.
Non c’è dubbio che il flusso migratorio degli ultimi trent’anni abbia dei tratti particolari in quanto legato a un nuovo modello produttivo. Non è più Fincantieri che assume nuove maestranze che si trasferiscono a Monfalcone con le famiglie, ma i lavoratori sono quasi esclusivamente al servizio dell’indotto e dell’appalto, quindi spesso con impieghi poco retribuiti e precari, inoltre, l’immigrazione proviene da aree molto distanti storicamente e culturalmente da noi, quindi con una difficoltà di integrazione maggiore.

Va anche detto che quando una città di poco meno di trentamila abitanti ha una percentuale di stranieri ormai superiore al 25% la situazione diventa complessa da gestire. Allora si possono fare due cose: strumentalizzare il problema, raccontare la storiella che gli immigrati si possono “mandare via” (nascondendo il fatto che il Comune non ha alcuna competenza sui flussi migratori) o affrontare la questione seriamente.

Il primo atteggiamento è quello adottato da questa amministrazione. Cisint e soci hanno fatto degli immigrati il capro espiatorio di ogni problema. Negli anni, invece di gestire la cosa, hanno pensato di risolvere tutto con piccoli dispetti o attività deliberatamente ostili verso chi provenga da un altro paese.

Abbiamo assistito a prese di posizioni contro i romeni che hanno lambito l’incidente diplomatico, alla cacciata dalla Festa dello sport di ragazzi che volevano solo giocare a cricket, al rendere più difficile l’accesso ai servizi scolastici dei bambini di origine straniera. Azioni cattive e del tutto inutili. Azioni che non hanno mai interessato chi ha prodotto il proliferare dell’immigrazione a Monfalcone: Fincantieri.

La grande azienda che dovrebbe intervenire con consistenti risorse per aiutare il Comune nella gestione del fenomeno, la grande azienda che dovrebbe preoccuparsi da dare lavoro sicuro è adeguatamente retribuito. Invece niente, a quella porta si è preferito evitare di bussare.

Sull’immigrazione bisogna dire la verità ai monfalconesi: gli immigrati non se ne andranno. Anzi, i loro figli, nipoti, resteranno qui e saranno italiani a tutti gli effetti (molti già stanno acquisendo la cittadinanza). Già oggi per molti immigrati di seconda o terza generazione il Paese natale è solo una cartolina, un racconto dei loro genitori, mentre è qui, in Italia, a Monfalcone, che vogliono costruire il loro futuro.
L’immigrazione, quindi, è un fenomeno che va affrontato con intelligenza e serietà. Consapevoli che non è mai irenico, che è complesso e che per essere gestito al meglio vanno usate molte risorse. Consapevoli anche che nella storia sono sempre state le società multietniche ad essere le più ricche e le più dinamiche.

Veniamo allora un po’ di questioni nel concreto. Uno dei temi della propaganda della destra è che la nostra immigrazione sarebbe più problematica perché composta da persone che arrivano da molto lontano, con una cultura e una religione diversa. Anche qui basterebbe agire con intelligenza e non con slogan semplicistici.

La stessa Costituzione e le leggi del nostro Paese ci vengono in aiuto: in Italia c’è la libertà di culto, ci sono le leggi che tutti devono rispettare. Quindi, per essere chiari, a Monfalcone i musulmani hanno tutto il diritto praticare la loro religione, nel rispetto delle leggi, festeggiando le proprie più importanti ricorrenze, come già fanno le altre comunità religiose. Semplice.

C’è chi osserva che coloro che arrivano dal Bangladesh hanno costumi diversi dai nostri su alcune questioni, come la parità tra donne e uomini. È vero ma le cose non sono mai così semplici, ad esempio l’attuale primo ministro, in Bangladesh, è una donna. Inoltre, come accaduto per noi italiani, i costumi si modificano, cambiano e già oggi nella comunità bengalese si fa strada il concetto che tra i generi deve esserci l’assoluta parità di diritti e doveri.

Conosciamo tutti la storia del nostro Paese e anche di questo territorio per sapere che l’emancipazione femminile è stato un lungo e faticoso processo. Un processo dove pesano questioni come l’aborto, il diritto di famiglia, le posizioni sull’alienazione parentale… Temi sui quali il partito della signora sindaca, la Lega, con le sue posizioni conservatrici in tema di famiglia, genere e sessualità, non ha mai realmente sostenuto, anzi costringendo i movimenti femministi a prese di posizione e manifestazioni di dissenso dalle politiche reazionarie.

Sul tema della parità, invece delle chiacchiere, l’amministrazione pubblica dovrebbe promuovere attività concrete: come i corsi di lingua, in particolare per le donne, e il potenziamento dei servizi per la famiglia, cercando esempi virtuosi all’interno delle comunità. Tutte cose che questa giunta fa molto poco e mal volentieri.

C’è un luogo dove l’integrazione si costruisce: le scuole. Esse dovrebbero essere un luogo dove rivolgere le più grandi attenzioni e risorse. Il posto dove si costruiscono i cittadini di domani, i nuovi italiani che, anche con la ricchezza delle loro diverse provenienze, sapranno fare crescere il nostro Paese. Purtroppo, invece, in questi anni le scuole cittadine sono state lasciate sole, allo sbando, senza che l’amministrazione comunale mettesse l’attenzione e le risorse adeguate. Cosicché tutto è stato lasciato sulle spalle degli insegnanti e delle strutture scolastiche. Bisogna investire, chiedere risorse allo Stato e alla Regione, invece di lasciare tutto come sta. Faccio solo un esempio, oggi c’è a disposizione non in modo continuo un solo mediatore culturale mentre ci sarebbe bisogno di un servizio continuativo e diffuso.

Si potrebbe continuare a lungo, ma ciò che è evidente è che chi oggi governa Monfalcone non vuole affrontare il problema seriamente. Vuole che esso marcisca, che provochi tensioni e odi solo per poterlo usare strumentalmente. Così, però, si danneggia non solo la comunità di immigrati, ma l’intero tessuto della città.

In città ci sono istituzioni, sociali, scolastiche, sanitarie, che ogni giorno, grazie alla dedizione dei loro operatori, si occupano di questi temi; ci sono volontari, associazioni cattoliche e laiche che contribuiscono all’integrazione. Non vanno lasciati soli, il comune deve essere in prima linea a sostenere, organizzare, per favorire la crescita di una città migliore.
Dovremo intenderci, una volta per tutte, su cosa vuole dire integrazione. Vuole dire che in una città di tutti, ognuno nel rispetto delle leggi, può proseguire nel suo percorso di vita, nelle sue scelte religiose, etiche, materiali, sempre nel rispetto di tutti. Significa far crescere una comunità e non metterne un pezzo contro l’altro.
Si tratta di una sfida enorme che Monfalcone deve affrontare per il suo futuro.
Chi ha governato la città negli ultimi anni ha fallito, per incapacità e di proposito. Noi, invece, siamo pronti a fare del bene.