Quando si guardano le foto dell’arrivo di qualche alto papavero in Fincantieri si può notare sempre una cosa: non ci sono mai i lavoratori. Diretti, indiretti, operai, impiegati, mai; la scena è sempre la stessa: i dirigenti, l’alto papavero leghista (eh, già dai tempi di Bossi e Belsito i leghisti si occupano parecchio di Fincantieri) e la sindaca. L’altro giorno è stato il turno del ministro dello sviluppo economico Giorgetti, l’uomo che ha l’ingrato compito di fare la parte del leghista serio, compito, lo capiamo, difficilissimo e che spesso non gli riesce bene. Nella sua visita, conclusa con un’iniziativa elettorale in favore della sindaca, ha vagheggiato un non chiaro progetto di introduzione dei motori a idrogeno in collaborazione con la Croazia e, in modo più chiaro, una nuova stagione di costruzioni per Fincantieri legata al militare. Insomma, secondo lui si dovrebbe tornare alle navi da guerra ma senza lasciare il settore di quelle da crociera. In che modo? Boh, non l’ha detto, ma si è capito che si continuerà con l’appalto, il subappalto, il lavoro precario, la transumanza di ditte e maestranze che tanti problemi creano al nostro territorio. Vabbè, sono le idee di Giorgetti, e tanto non è lui il ministro che tiene i cordoni della borsa dell’azienda: quello è il ministro dell’economia, titolare del ministero che, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, detiene le quote maggioritarie di Fincantieri.
In tutto questo confuso turbine di “idee” la nostra sindaca ha fatto la parte della spalla, anzi, della comparsa. Non una parola sulle condizioni dei lavoratori, sul ricorso sfrenato agli appalti, poche banalità su occupazione e stipendi, e il tutto condito dalla solita cattiveria di cui è maestra: per risolvere i problemi di Fincantieri basta bloccare i ricongiungimenti dei lavoratori con le loro famiglie. Capito che genialata? Continuiamo con gli appalti, la precarietà, le basse retribuzioni, ma impediamo ai lavoratori di ricongiungersi con moglie e figli e tutto si aggiusterà. Che pena.
Il rapporto tra questa amministrazione e Fincantieri è un film grottesco con un finale patetico. Riavviamo la pellicola degli anni passati: nella precedente campagna elettorale la sindaca aveva giurato e spergiurato che lei, diversamente da tutti gli altri, non si sarebbe mai prostrata davanti a Fincantieri, avrebbe, invece, “battuto i pugni sul tavolo” e imposto all’azienda tutta una serie di misure in favore della città. L’esordio fu spumeggiante: alla prima consegna di una nave durante il suo mandato non si presentò. Poi, visto che l’azienda non pareva sfiorata dalla tecnica dell’Aventino, si è messa a incontrare tutti, tranne il ministro dell’economia, e allora i toni si sono distesi. Ha cominciato a partecipare alle visite istituzionali, ai vari, alle consegne, e ai rinfreschi che seguivano, ridendo pure alle simpatiche battute del sempreverde amministratore delegato Bono che ricordava, amabilmente, che lui gli immigrati li doveva prendere perché ai giovani monfalconesi il lavoro sottopagato proposto dal subappalto di Fincantieri stranamente non piaceva.
Così, tra un prosecco e una battuta sui giovani sfaticati, è scoccata la pace. Basta proclami anti aziendali, sono arrivate qualche sponsorizzazione per delle mostre (sempre navi e sommergibili) e un asilo in mezzo al traffico. Però, quando carichi a molla i fan, non li puoi smontare tanto facilmente. Così il pugno sul tavolo dai dirigenti viene rivolto ai lavoratori: basta mangiare e bere in pubblico, multe a macchine e biciclette, non si va in giro in tuta da lavoro. Non riuscendo a fare nulla per occupazione e salari, il pugno di ferro dell’amministrazione si scatena contro chi mangia un panino sul marciapiede.
Negli anni però i problemi si sono incancreniti, la presenza della grande fabbrica sta diventato insopportabile per una buona parte dei cittadini e quella che dovrebbe essere un volano per lo sviluppo e la crescita della città sta diventando un peso sociale, ambientale ed economico. Appare sconcertante che mentre l’azienda macina profitti, questi non si traducano in benefici per la città che la ospita. Infine, ciò che è ancora peggio, si aprono ripetute inchieste giudiziarie, su caporalato e corruzione, che vedono coinvolti dipendenti dell’azienda e ditte dell’appalto.
La fabbrica negli ultimi decenni non assorbe più l’occupazione cittadina, e il lavoro offerto è quasi sempre di bassa qualità e precario, quasi sempre lasciato alle ditte dell’appalto.
Quando si immaginò il trasferimento della sede centrale da Trieste a Monfalcone vi fu una levata di scudi della politica triestina che risultò, assai più forte della nostra, e così non se ne fece nulla. Poche settimane fa, inoltre, l’azienda ha orgogliosamente mostrato il suo primo asilo aziendale, naturalmente realizzato a Trieste e non certo da noi.
Recentemente sono cambiati i vertici aziendali: sono arrivati un nuovo presidente, il generale Claudio Graziano, e un nuovo amministratore delegato Pierroberto Folgiero. Sarebbe stata l’occasione giusta per l’amministrazione comunale di farsi sentire ed esporre i problemi della città, invece nulla. Si è preferita la scampagnata elettorale con Giorgetti.
Su Fincantieri il fallimento di questa amministrazione è totale. Non si è mai parlato di responsabilità sociale nei confronti della nostra comunità. Nessun sostegno sull’impatto dell’immigrazione, disattenzione sulle condizioni di lavoro e le retribuzioni, insomma, l’azienda tratta Monfalcone come fosse il suo cortile dove scaricare i problemi e il comune fa allegramente la parte di chi finge di non accorgersi di nulla e parla d’altro.
Ci vuole ben altro in questo momento. Va aperta una vertenza, direttamente con il Governo e il ministero dell’economia: se Fincantieri è strategica per l’Italia, come spesso si ripete, allora deve esserlo anche Monfalcone. Devono arrivare risorse, investimenti, piani perché la città possa accogliere serenamente un’azienda che vuole essere un competitore nell’economia mondiale. Vanno coinvolte tutte le istituzioni, le parti sociali, la città, costruendo un progetto che guardi al futuro cittadino in termini di rapporto virtuoso tra lavoro e qualità della vita. Se non si farà tutto ciò saremo condannati a un inevitabile declino.
Ci vogliono amministratori diversi, capaci di cogliere la necessità di un legame virtuoso tra lavoro e territorio, che capiscano che si vince con l’innovazione e il lavoro sano e sicuro, che si impegnino per il futuro di tutti e non solo per la propria carriera politica. Ci vuole visione, lungimiranza, impegno e non basterà un selfie con il capoccia di turno. Il tempo dello sfruttamento delle persone e dell’ambiente, quello del profitto sopra ogni cosa, non deve tornare più. Ci vuole, insomma, qualcosa di molto meglio di ciò che abbiamo avuto fino a oggi. Ricordatevene il prossimo 12 giugno quando vi recherete ai seggi.